sabato 23 agosto 2008

Arrestato Antonio Bifone, ex cutoliano di ferro, legato al clan Belforte di Marcianise

Durante una mirata attività info-investigativa finalizzata a verificare le violazioni degli obblighi imposti dalla sorveglianza speciale, i carabinieri della stazione di Macerata hanno arrestato in flagranza di reato il 54enne pluripregiudicato Antonio Bifone, residente a Portico di Caserta, in atto sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, capo dell’omonimo clan camorristico operante in Portico di Caserta e legato al clan Belforte di Marcianise. Bifone, in violazione degli obblighi imposti dalla sorveglianza speciale, è stato sorpreso dai militari operanti nel comune di Macerata Campania insieme ai suoi familiari a bordo di un’autovettura Fiat Idea, condotta dalla moglie. Accortosi di essere seguito dai carabinieri, ha cercato invano di eludere il controllo. Era stato scarcerato due settimane fa. L’arrestato, dopo le formalità di rito, è stato associato alla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Antonio Bifone è stato uno dei punti di riferimento di Raffaele Cutolo in provincia di Caserta. Il "professore" di Ottaviano teneva in grande considerazione la famiglia Bifone, al punto che in più di un'occasione l'avrebbe coinvolta nei suoi affari criminali.

mercoledì 20 agosto 2008

Arrestato il ras della fazione dei Liternesi dei Casalesi Cesare Tavoletta

Era riuscito ad evitare l’arresto durante il blitz del primo luglio, operazione anticamorra che aveva decimato il clan Tavoletta-Ucciero, ma non è sfuggito allo sguardo vigile di un carabiniere libero dal servizio che partecipava ai festeggiamenti in onore della Madonna. Quando i militari della compagnia di Casal di Principe, sono intervenuti, Cesare Tavoletta, reggente dell’organizzazione, ha cercato di far perdere le proprie tracce tra la folla, alcune migliaia di persone in piazza per la festa, ma è stato bloccato dopo un breve inseguimento nei pressi del viale Margherita. Cesare Tavoletta, trentacinque anni, figlio di Gaetano Tavoletta, da non confondere con l’omonimo cugino, ex baby boss, figlio del capostipite del clan Pasquale Tavoletta, detto Zorro, divenuto alcuni anni fa collaboratore di giustizia. L’esponente del clan dei Liternesi era in compagnia della moglie e dei figli. Il carabiniere in borghese, dopo averlo riconosciuto, ha immediatamente chiesto rinforzi, senza mai perdere di vista il pluripregiudicato, che era latitante dal diciassette aprile. Sul trentacinquenne latitante pendevano due ordinanze di custodia cautelare in carcere, la prima del diciassette aprile nell’ambito dell’operazione Domizia per il reato di illecita concorrenza aggravata dal metodo mafioso nel mercato del noleggio dei videopoker, la seconda del primo luglio, denominata Liternum’. In questo secondo caso le accuse contestate riguardano i reati di associazione a delinquere di stampo camorristico, per aver preso parte all’omonimo clan e di estorsione aggravata. Gli viene contestata, in particolare un’estorsione ai danni dei fratelli Angelo e Mario Russo, soprannominati “Schiaffino”, titolari di un supermercato. Sarebbero stati portati a casa di Cesare Tavoletta e costretti a monetizzare numerosi assegni di dubbia provenienza e privi di copertura. Gli episodi si sarebbero verificati tra il mese di novembre del 2003 ed il febbraio dell’anno successivo con la complicità di Antonio Di Fraia e di Vincenzo Ucciero, entrambi deceduti. Tavoletta fa parte della fazione dei Casalesi detta dei “Liternesi”, i Tavoletta-Cantiello, per anni in guerra con quella capeggiata dal boss Francesco Bidognetti e dai figli Aniello e Raffaele per il predominio del litorale domizio del business delle estorsioni. Il malvivente, che era riuscito a sfuggire all'operazione che lo scorso 1 luglio aveva colpito pesantemente le due fazioni con l'esecuzione di 27 ordinanze di custodia cautelare sulle 32 emesse dai magistra è stato rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Gli scissionisti si alleano con gli Aprea

Le faide di Secondigliano (2004) e del rione Sanità (2005) hanno modificato, in profondità, gli equilibri criminali cittadini, soprattutto per quanto riguarda i canali di approvvigionamento delle sostanze stupefacenti, che rappresentano - per la quantità e la frequenza di incasso - il capitolo più ricco del bilancio della camorra spa. Le ultime rilevazioni degli 007 delle forze dell’ordine tratteggiano infatti una situazione di estrema “fluidità”, in cui le alleanze di dieci, o anche di cinque anni fa, sono state disintegrate da nuovi e più convenienti accordi che, a loro volta, sono messi a dura prova dalla pressione investigativa e dalle risultanze processuali, oltre che dall’evoluzione delle stesse dinamiche criminali (arresti, latitanze, omicidi e scarcerazioni). In un simile contesto, dunque, più che il potere bellico, fin troppo visibile e dunque portatore di indagini, manette e sentenze, appare fondamentale il potere economico-commerciale, che consente una presenza invisibile, ma lo stesso asfissiante, sul territorio. Il dato, probabilmente, più interessante di questa nuova strategia riguarda il cartello degli scissionisti - che è formato, ormai, dalla totalità dei gruppi un tempo federati con Paolo Di Lauro - che ha stretto patti commerciali non solo con le storiche organizzazioni dell’hinterland nord e della provincia partenopea, per il rifornimento di droga, ma pure con i sodalizi dell’area orientale e con altre associazioni emergenti del centro storico. Gli inquirenti, infatti, hanno registrato una significativa “attività di connessione” tra gli affiliati del boss Raffaele Amato e gli esponenti più importanti della famiglia Aprea di Barra, finalizzata alla conquista delle “piazze di spaccio del quartiere e di via delle Repubbliche marinare”. Ciò significa che gli spagnoli hanno colonizzato, ormai, gran parte dell’area metropolitana non attraverso una diretta presenza militare sul territorio, ma grazie alla propria capacità commerciale, di fatto ereditata dall’appartenenza al network criminale capeggiato da Ciruzzo ’o milionario. A questa potente federazione si contrappone, secondo le ricostruzioni degli uffici investigativi, il sodalizio formato dalle famiglie Alberto-Guarino e dal vecchio nucleo dei Mazzarella, che è riuscito - grazie a una strategia aggressiva non efficacemente contrastata dai rivali - “a ottenere il diretto controllo delle attività criminali su Villa Bisignano e nelle zone limitrofe”. Sempre sul versante orientale della città, i sismografi dell’Antimafia hanno rilevato un significativo ridimensionamento del potere criminale del clan Rinaldi, ormai quasi esclusivamente confinato nel rione Villa e in via Ravello a San Giovanni a Teduccio, dove “fiorisce una ricca attività di spaccio al minuto di sostanze stupefacenti” che si avvale dei canali storici di rifornimento della droga, quelli - cioè - gestiti dai Misso e dai Di Lauro. I rapporti di collaborazione commerciale tra il gruppo Amato-Pagano e il cartello formato dalle famiglie Aprea-Cuccaro confermerebbe l’espansione dei traffici degli spagnoli anche nell’area orientale della città, dopo aver quasi completamente monopolizzato il mercato degli stupefacenti sia nell’hinterland nord di Napoli (Secondigliano, Miano, San Pietro a Patierno, Piscinola, Chiaiano) sia al centro storico (Sanità, Forcella e Maddalena). Nelle informative delle forze dell’ordine, inoltre, c’è scritto che “gli scissionisti avrebbero conquistato l’intero territorio di Scampia, confinando i Di Lauro nella loro storica roccaforte del cosiddetto “Terzo mondo”, o “rione dei Fiori””. Alla vecchia cosca di Ciruzzo ’o milionario, dunque, non sarebbe rimasto altro da fare che allearsi con i nuovi reggenti del clan Misso per trovare un canale di vendita ancora utilizzabile, dal momento che - annotano ancora gli inquirenti - tutti gli altri bacini sarebbero stati conquistati dagli uomini del boss Raffaele Amato.

venerdì 15 agosto 2008

Sono latitanti i reggenti del clan dei Casalesi.

Il programma Giirl (Gruppo integrato inter-forze ricerca latitanti) del ministero dell’Interno conta altri due personaggi di primissimo piano del clan dei Casalesi: Antonio Iovine (nella foto a sinistra) e Michele Zagaria (nella foto a destra). Il primo, nato a San Cipriano d’Aversa 43 anni fa, nipote del boss Mario Iovine, ucciso a Cascais nel 1991, è ricercato da 12 anni per mafia, racket ed omicidio: è considerato dagli inquirenti il cervello dell’ala militare dei Casalesi, dopo la decennale detenzione di Francesco Bidognetti e Francesco Schiavone. Sembra che nel settembre 2007 sia stato fermato e rilasciato, durante un controllo in piazza di Spagna, a Roma, da una pattuglia delle forze dell’ordine che non lo ha riconosciuto. Il secondo, invece, è ricercato da 13 anni per associazione mafiosa, rapina, omicidio ed estorsione: il suo clan rappresenta il cuore economico del network criminale. Lui è il boss-manager capace di allacciare rapporti e solide alleanze finanziarie con i circuiti politici e imprenditoriali puliti non solo in Campania, ma in mezz’Italia. Per entrambi sono state diramate le ricerche in campo internazionale, ma finora i sismografi dell’Antimafia ne hanno segnalato la presenza - seppur impercettibile - in Italia e in provincia di Caserta. Il network criminale di Casal di Principe spazia dal narcotraffico internazionale, alla gestione del ciclo dei rifiuti, all’industria alimentare (sia nella produzione che nella distribuzione di prodotti lattiero-caseari), al racket, all’edilizia (movimento terra, cementifici e grandi appalti) fino ai videopoker e alle scommesse clandestine: un giro d’affari enorme, che spesso non riesce a trovare adeguati sistemi di riciclaggio. Le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Napoli hanno permesso di ricostruire, infatti, i flussi finanziari della cosca e gli investimenti effettuati non solo in Campania, ma anche nel resto d’Italia: ne emerge una mappa dettagliatissima, che riporta gli insediamenti economicofinanziari della camorra casertana nel tessuto produttivo nazionale e locale. I capitali mafiosi sono stati dirottati in Lombardia, in Emilia Romagna, nel Lazio e in Umbria, dove è stato accertato grazie ad approfondite indagini che la cosca ha investito in complessi residenziali e commerciali, in catene
alberghiere e in società di import-export. Capita, talvolta, che i soldi siano talmente tanti da rendere necessaria un’azione di ripulitura diversa: l’acquisto di una società di calcio di serie A, come la Lazio, ad esempio. Anche se quest’ultimo filone investigativo lascia aperti ancora tanti scenari, al momento inimmaginabili.

I Casalesi vogliono uccidere i P.M.

I capi latitanti dei Casalesi «avrebbero minacciato di morte alcuni investigatori, ipotizzando anche attentati in danno di uffici investigativi. Tali messaggi appaiono, allo stato, non privi di fondamento». È l’allarme contenuto nella circolare che, agli inizi di agosto, i ministeri dell’Interno e della Difesa hanno diramato a questure, comandi dei carabinieri e squadre speciali delle forze dell’ordine che si occupano del temibile clan casertano. La cosca, secondo le informazioni in possesso dei servizi di sicurezza, avrebbe progettato l’uso di armi da guerra e, in particolare, di potenti “lanciarazzi” contro gli apparati inquirenti che, da almeno un anno a questa parte, stanno lavorando per smantellare le ali militare ed economica della holding criminale. L’allarme ha destato non poca preoccupazione negli uffici giudiziari partenopei, dal momento che l’aggressione allo Stato sarebbe la naturale conclusione di un percorso stragista, intrapreso dall’organizzazione, che ha visto prima la pulizia etnica nei confronti dei parenti dei collaboratori di giustizia e poi una cruenta azione di rappresaglia verso gli imprenditori che si erano ribellati al pizzo. Lo stesso procuratore aggiunto Franco Roberti, coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, aveva parlato, in occasione dell’omicidio di Michele Orsi, di «un salto di qualità della strategia dei Casalesi di attacco ai soggetti che collaborano per contrastare i clan», sottolineando l’importanza di un’efficace attività di contrasto, attraverso la “cattura dei latitanti, come Michele Zagaria, Antonio Iovine ed altri, che stanno sparando”. Si ripeterebbe, in pratica, quella stessa folle tattica dell’orrore che sperimentarono i Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano agli inizi degli anni Novanta, quando la conferma in Cassazione delle condanne del primo maxi-processo mise in seria difficoltà la commissione regionale di Cosa nostra, obbligandola a difendersi attaccando. Anche per i Casalesi, si è ipotizzato un collegamento tra l’escalation di violenza in Terra di Lavoro e la sentenza d’appello “Spartacus”, che ha confinato all’ergastolo i padrini del vecchio gruppo dirigente, a due dei quali - Francesco Sandokan Schiavone e Francesco Bidognetti - qualche giorno fa è stato inasprito il regime di carcere duro con l’isolamento totale per sei mesi. All’origine del provvedimento, si legge nel documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’accusa di «non aver impedito la mattanza realizzata negli ultimi mesi dal clan di Casale, che ha portato avanti una strategia del terrore, uccidendo anche testimoni e collaboratori di giustizia». Un particolare che, dunque, collega in un flusso mai interrotto di informazioni e di direttive i padrini detenuti e il resto dell’associazione. Attribuendo la paternità degli attentati di questi ultimi mesi a decisioni congiunte di boss ergastolani e super-latitanti. I quali ultimi, adesso, avrebbero ipotizzato la sfida diretta al cuore dello Stato.

Ancora una denuncia per Luciano Mazzarella.

Luciano Mazzarella aveva promesso che sarebbe rimasto fino a Ferragosto ed ha mantenuto fede alla parola data quando è stato fermato dalle forze dell’ordine. Ieri mattina è caduto nuovamente nella rete dei controlli predisposti dal comando compagnia carabinieri guidati dal maggiore Luigi Mauro. Gli uomini del nucleo operativo hanno beccato il figlio di “’o scellone” in via Venanzio Marone, in una abitazione, in compagnia del genero Angelo Marmolino, detto “mezalengua”. Entrambi sono stati prelevati e condotti in caserma e denunciati all’autorità giudiziaria essendo entrambi già provvisti di foglio di via obbligatorio emesso nei loro confronti l’estate scorsa. Contravventori al divieto di rimettere piede sull’isola d’Ischia per tre anni. Ma se per Marmolino è stato l’esordio, per Mazzarella è diventata ormai un’abitudine trovarsi denunciato alla Procura della Repubblica. Un esposto al giorno fino a quando non avrà deciso di allontanarsi spontaneamente dall’isola d’Ischia. La sua intenzione, però, è di rimanere fino a Ferragosto e non si schioda dal porto di Ischia, ove è ancorato il suo motoscafo “Luciano e Anna” e con un cerchio al cui interno è riportato “Noi”. Per l’attracco del potente natante nel frattempo la polizia di Stato ha provveduto a denunciare e a sanzionare il titolare della società di ormeggio dove è attraccato il natante di Mazzarella, per aver evaso la disposizione del Ministero dell’Economia che obbliga di riportare tutti i natanti che attraccano, i giorni di permanenza e il relativo incasso. Mazzarella ha quindi lanciato il guanto della sfida, ha detto che sarebbe rimasto per un certo periodo ed ha tenuto fede alla parola data, ma al tempo stesso le forze dell’ordine che di continuo lo fermano e lo denunciano, non possono far nulla per far rispettare il divieto di rimanere sull’isola d’Ischia come il provvedimento del questore impone. Tutt’al più potranno, quando arriverà il momento, dichiarare dinanzi al Tribunale che Mazzarella più volte era stato fermato, perché questa è la fine che il figlio di “’o scellone” sarà costretto a fare al massimo tra un anno, quando tutte queste denunce finiranno al vaglio del giudice monocratico della sezione distaccata di Ischia per violazione alla legge sulle misure di prevenzione e per aver violato l’articolo 2 della norma 1423 del 1952 che consente al Questore o a un suo delegato di allontanare quelle persone ritenute pericolose per la sicurezza e l’ordine pubblico. Rischia per queste “leggerezze” da uno a sei mesi di reclusione e accumulate le varie denunce, c’è il rischio che Luciano Mazzarella debba raccogliere delle pesanti condanne, dato che i giudici della sezione distaccata di Ischia non sono affatto benevoli nei confronti di chi viola tale disposizione. Alcuni pregiudicati sono finiti in galera proprio perché non hanno rispettato l’ordine di espulsione e sono ritornati più volte sull'isola di Ischia.

martedì 12 agosto 2008

L'Alleanza di Secondigliano: lo scenario probabile dopo l'arresto di Patrizio Bosti.

«L’arresto di Patrizio Bosti, l’ultimo capo dell’Alleanza di Secondigliano ancora in libertà, rappresenta certamente un elemento perturbatore degli equilibri criminali, che potrebbe portare altri clan, come ad esempio i Lo Russo e i Sarno, ad approfittare della situazione e ad avviare una politica espansionistica ». L’analisi si svincola dall’attualità dell’arresto del boss del Vasto-Arenaccia, avvenuto ieri notte in Spagna, e si proietta in un futuro nemmeno troppo lontano. «Con la cattura di Edoardo Contini, il ruolo di Bosti era cresciuto ulteriormente nelle funzioni e nella capacità di coordinamento. Il suo non era assolutamente un potere simbolico: era lui a comandare, anche se dalla latitanza era costretto ad affidare le attività operative a coloro che erano rimasti sul territorio. Certamente, la sua assenza ora determinerà una situazione di estrema difficoltà al suo gruppo originario e al cartello di Secondigliano, già indebolito dalle detenzioni di Vincenzo Licciardi e dello stesso Contini. Con tutta probabilità qualcuno potrebbe decidere di intraprendere una campagna di conquiste nei territori controllati finora dal sodalizio». Sulla possibilità di una successione da parte del latitante Paolo Di Mauro, Roberti è scettico: «Non credo che Di Mauro possa assumere da solo la guida di una organizzazione complessa. Siamo davanti a uno scenario molto turbolento.

Arrestato Patrizio Bosti, l'ultimo boss dell'Alleanza di Secondigliano

Era a cena con una quindicina di amici, spagnoli e napoletani, in un ristorante di lusso della cittadina spagnola di Plaja de Aro nella provincia di Girona. In tasca 48 banconote da 500 euro per un totale di 24mila euro. Quando ha visto i carabinieri entrare nel ristorante ha detto: «Siete stati bravi a trovarmi». È finita così la fuga di uno dei trenta latitanti più pericolosi secondo il Ministero dell’Interno. Patrizio Bosti, 49 anni, napoletano, elemento di spicco dell’omonimo clan camorristico, è stato stanato venerdì alle 00,20 in Spagna dai carabinieri del comando provinciale di Napoli insieme con i colleghi della Guardia Civil spagnola. Ricercato dal 2003, nel 2005 è stato condannato della Corte di Assise di Appello di Napoli a 23 anni di reclusione per il duplice omicidio dei fratelli Giglio, avvenuto nel settembre 1984 nell’ambito di una guerra di camorra tra il clan Contini e i clan Giuliano e Mazzarella. Scarcerato per scadenza termini, da allora fece perdere le sue tracce, anche quando l’anno scorso è stato raggiunto da un ordine di cattura per droga nel blitz denominato “Piazza pulita”. Considerato dagli investigatori uno dei camorristi più grossi di Napoli, non è un caso che si trovasse in Spagna. «Negli ultimi anni i latitanti più importanti sono stati tutti arrestati in Spagna. Perché è da qui che il traffico di droga viene gestito». Dopo l’arresto di Edoardo Contini e di Vincenzo Licciardi, Patrizio Bosti era diventato di fatto il reggente dell’Alleanza di Secondigliano. Inoltre, aveva stretti legami di parentela anche con i reggenti di altri clan come i Mallardo e i Lo Russo. A suggello della loro alleanza i tre capiclan Francesco Mallardo, Edoardo Contini e Patrizio Bosti avevano sposato tre sorelle. Ma c’è un particolare che apre nuovi scenari nella mappa criminale della città. Al momento dell’arresto il boss era con Elena Bastone, ex moglie di Ciro Giuliano, cugino di “Lovegino”, ucciso in un agguato il 15 marzo 2007 in via Sant’Alfonso de Liguori. Per gli “007” dell’Arma non ci sono dubbi. L’Alleanza di Secondigliano ha «messo le mani» su Forcella, quartiere di Napoli tra le roccaforti della criminalità, soprattutto per lo spaccio. E lo ha fatto con l’appoggio del clan in decadenza, decimato da faide e arresti. Era proprio la famiglia Bastone a coprire la latitanza del boss: alcuni membri erano al ristorante con il boss. Già in passato Patrizio Bosti aveva stretto un legame sentimentale con una del clan Giuliano. «Con l’arresto di Bosti - ha detto il comandante del reparto operativo colonnello Gerardo Iorio - abbiamo dato un duro colpo all’Alleanza di Secondigliano. Con Licciardi, Contini, Mallardo e Lo Russo detenuti, Bosti era diventato il reggente.

Fermato il ras del Pallonetto di Santa Lucia Luciano Mazzarella

Hanno fermato sotto l’ombrellone il superboss Luciano Mazzarella, figlio di Ciro, meglio conosciuto come "’o scellone”, ras del Pallonetto di Santa Lucia. Il quarantaduenne pluripregiudicato per reati associativi di stampo camorristico e per possesso di sostanze stupefacenti, si trovava a passare una giornata con la moglie ed alcuni familiari. Nei suoi confronti i militari dell’Arma del nucleo operativo hanno trasmesso una denuncia in stato di libertà essendo stato espulso il 21 agosto del 2006, quando venne sorpreso dalle forze dell’ordine con un altro personaggio della malavita. Mazzarella all’epoca riferì agli uomini che lo accompagnavano negli uffici per essere cacciato via dall’isola d’Ischia: «Quando vengo su questo scoglio mi comporto sempre bene, perché debbo essere allontanato? Vengo in una località turistica che non ha neanche le fogne». Luciano Mazzarella dopo le formalità di rito è stato accompagnato all’aliscafo per fare ritorno in città con l’obbligo di non rimettere piede, pena l’ennesima denuncia. Il figlio di Ciro "’o scellone” da qualche tempo si è trasferito dal Pallonetto di Santa Lucia a Forcella con l’intera famiglia. Spesso è stato controllato da polizia e carabinieri per i vicoli della casbah, dove un tempo comandavao i Giuliano e dove ora comanda Vincenzo Mazzarella, zio di Luciano. Neanche il tempo di arrivare in città, che Luciano Mazzarella ha preso in fitto un potente motoscafo di 18 metri che per due giorni gli è costato 5.000 euro, e si è imbarcato con la famiglia seguito a ruota da un altro ”pezzo da novanta”, tale Angelo Marmolino, detto ”meza lengua”, suo genero, e Gennaro Rapillo. Tutti e tre sono stati beccati al largo del comune di Forio da una motovedetta della Polizia di Stato. Nei loro confronti non è stato possibile emettere alcun provvedimento né di natura amministrativa, né di polizia giudiziaria, in quanto si trovavano a qualche miglio dalla costa. Durante tutta l’operazione di controllo gli agenti hanno fatto scendere le moglie e i figli per eseguire una minuziosa perquisizione che si è conclusa con esito negativo. I carabinieri hanno svolto numerosi controlli ed hanno fermato tale Salvatore Montefusco, 38enne di Casavatore, anche lui con precedenti penali per reati contro il patrimonio e la persona. Nella notte tra sabato e domenica è stata particolare l’attività di prevenzione svolta dalla Benemerita agli sbarchi dei traghetti. In particolare è stato fermato un grosso furgone al cui interno i militari della stazione di Ischia hanno rinvenuto e sequestrato circa 100 chili di fuochi pirotecnici. Alla guida c’era un trentatreenne di Ottaviano, tale V. N., con precedenti, che è stato sottoposto al foglio di via con l’obbligo di non fare ritorno per almeno tre anni sull’isola d’Ischia

lunedì 11 agosto 2008

Ecco chi è Antonio De Luca Bossa: figlio di Umberto De Luca Bossa che aveva tentato di evadere nei giorni scorsi.

È un boss di primissimo piano della camorra della periferia est della città. È stato condannato all’ergastolo per un omicidio ma all’inizio dell’anno aveva ottenuto gli arresti in una clinica romana per motivi di salute. Da lì, però, Antonio De Luca Bossa ”’o sicco” (nella foto) continuava a dare ordini ai suoi fedelissimi, tra cui c’era Raffaele Romano ”Lellè”, arrestato ad ottobre per una tentata estorsione al ”Ristorante dei Pini” di Cercola. Proprio partendo da quell’arresto i carabinieri arrivarono al padrino in clinica e il 24 aprile scorso lo arrestarono. Dalla sua stanza di lusso nella clinica ”Villa Lauricella” il padrino aveva continuato a governare la sua cosca. E non si era accorto che gli investigatori dell’Arma da un po’ di tempo lo stavano tenendo d’occhio. Per “organizzarsi” Antonio De Luca Bossa non ha aveva molto tempo. Prima di approdare alla clinica sulla Prenestina, infatti, era stato ricoverato in un’altra clinica psichiatrica romana dopo che il Tribunale di Parma aveva stabilito che il suo stato di salute non era compatibile con il regime carcerario. Per due mesi da Cercola e da Roma erano partite due “processioni”: Antonio De Luca Bossa riceveva tutti con calma, quasi da degente e non da detenuto. D’altra parte in quel regime, con un ergastolo sul groppone, non poteva frequentare nessuno, men che meno altri pregiudicati. I fatti che hanno portato il boss prima in cella e poi in varie cliniche di cura italiane risalgono al 25 aprile del 1998. Antonio De Luca Bossa, insieme al complice defunto, Giuseppe Mignano detto “Peppe scé scé”, si rese responsabile dell’omicidio di Luigi Amitrano. Mignano venne ammazzato in un agguato di camorra nel 1999.

Cercola: Tenta di evadere il boss Umberto De Luca Bossa

È stato scarcerato di recente per motivi di salute e gli è stata concessa la detenzione domiciliare, dopo moltissimi anni passati dietro le sbrarre per condanne inflittegli quando era un fedelissimo e amico personale di Raffaele Cutolo, padrino della Nco. Ma ieri il boss Umberto De Luca Bossa, 59enne, pluripregiudicato, padre del ras Antonio ”’o sicco” e marito di Teresa, è stato sorpreso fuori dalla sua abitazione di viale Ghandi a Cercola ed è stato denunciato a piede libero per evasione. Solo le sue precarie condizione di salute hanno impedito ai carabinieri del nucleo operativo della compagnia di Torre del Greco, e ai colleghi della tenenza di Cercolala, di ammanettarlo e riportarlo dietro le sbarre. L’ex cutoliano di Ponticelli si è trasferito a Cercola dopo che i Sarno hanno letteralmente cacciato dal Lotto O di via Bartolo Longo tutti gli affiliati al clan de Luca Bossa. E incappato nei controlli dei militari dell’Arma che ieri mattina hanno letteralmente passato al setaccio Cercola e Volla. Umberto De Luca Bossa è un cutoliano della primissima ora. Di lui hanno parlato diversi pentiti della Nuova camorra organizzata. Il maggiore accusato di Umberto De Luca Bossa è stato Guido Catapano, che ha raccontato in aula, durante il maxi-processo del 1985, come De Luca Bossa fu affiliato alla Nco quando era nel carcere di Perugia. Quando il padre era ormai in carcere da diversi anni, Antonio De Luca Bossa ”’o sicco”, ex fedelissimo dei Sarno, cominciò la sua carriera criminale. A soli 17 anni, nel 1989, partecipò alla strage di Ponticelli come killer al soldo del gruppo di Ciro ”’o sindaco” e fratelli. Fino a diventare il proconsole dei Sarno nella zona di Cercola. Il tutto fino al 1998, quando ”Tonino ’o sicco” decise di staccarsi dai Sarno per mettersi in proprio. Ne nacque una sanguinosa faida costata decine di morti ammazzati, anche ”eccellenti”. Il primo atto della faida fu un attentato clamoroso. L’auto del ras Vincenzo Sarno fu imbottita di tritolo durante una finta riunione tra clan e a lasciarci le penne fu Luigi Amitrano, nipote del padrino nonchè suo autista. Poi i Sarno hanno riconquistato tutto il territorio sottratto dai De Luca Bossa e molti degli uomini di ”Tonino ’o sicco” sono passati con il gruppo del rione De Gasperi.

Il detenuto Vincenzo Licciardi, nel 2006 quando era boss dell'Alleanza di Secondigliano, trascorse le vacanze a Saint Tropez

Vacanze a Sanit Tropez per il latitante Vincenzo Licciardi. Tra la fine di luglio 2006 e i successivi primi giorni di settembre il boss, allora latitante, trascorse l’estate in una villa in Francia con la sua famiglia. L’episodio è riferito nell’ordinanza di custodia cautelare con cui la Dda ha inferto lo scorso mese un duro colpo al clan di Secondigliano. Vincenzo Licciardi ha trascorso un periodo di latitanza dapprima in Francia, occupando con il proprio nucleo familiare una villa a Chavalaire sur Mer, piccolo centro turistico della Costa Azzurra, non lontano dalla più nota cittadina di Saint Tropez, successivamente nei pressi del lago di Garda (fino ai primi di settembre). Tale ricostruzione investigativa non avvenne in tempo reale, dal momento che non fu possibile predisporre alcun intervento di polizia giudiziaria in loco. Tuttavia la ricostruzione successiva consentì di evidenziare bene i comportamenti degli affiliati che curarono tutti i preparativi e gli spostamenti del latitante e del suo nucleo familiare. In realtà il latitante e la sua famiglia avrebbero dovuto trascorrere in Francia il periodo dal 29 luglio al 10 settembre 2006, ospiti di una villa nella cittadina di Chavalier sur mer, affittata a nome di tale Braggion Alessandro, tramite l’intermediazione di un’agenzia di Villaricca; ma tale villa, pur raggiunta alla data programmata è stata abbandonata dagli occupanti a partire dal 16 agosto, per motivi sconosciuti. Come già era accaduto in passate circostanze, la polizia giudiziaria comprese che i familiari si stavano preparando per la partenza attraverso l’intercettazione delle utenze utilizzate dai figli del latitante, i quali comunicavano ai rispettivi fidanzati particolari riguardante le vicende familiari, sebbene con precauzione. Ma soprattutto, l’assenza di traffico telefonico sulle utenze cellulari dei figli e la “comparsa” nell’abitazione di famiglia, sita in via Angiulli, dei cognati del latitante in funzione di guardiania, faceva intuire che la famiglia si stava riunendo in località segreta, per poi recarsi all’estero come si comprenderà. All’epoca di questa partenza (collocabile intorno al 28.7.2007), Antonio Errichelli era detenuto per scontare un provvedimento definitivo e venne scarcerato solo l’8.8.2006, in quanto beneficiario dell’indulto. Non appena scarcerato egli fu subito impiegato per le esigenze del latitante, dal momento che per cause rimaste ignote la permanenza in Francia, che avrebbe dovuto essere prolungata viene ridotta; sicché per il latitante insorse il problema di far rientrare a Napoli parte del suo nucleo familiare e di essere spostato in altra località italiana. Dalle intercettazioni dell’utenza telefonica radiomobile in uso alla convivente di Errichelli Antonio si comprendeva che dopo la scarcerazione aveva fatto rientro a Napoli per poi allontanarsi dalla città per alcuni giorni. In particolare il 17.8.2006 Errichelli contattava la moglie da una cabina pubblica installata nell’area di servizio “Cantagallo”, ubicata sull’autostrada A1, in località Bologna. Gli interlocutori parlano delle vacanze che dovranno trascorrere nei successivi giorni di agosto a Malaga, in base ad un pacchetto già acquistato. Il marito le propone di disdire questa vacanza, avendo lui la disponibilità di una “villa con piscina”. Salvatore Puccinelli resta libero nonostante un nuovo ordine di cattura.

La nuova fase della Faida di Scampia ha già fatto 9 vittime.

Il padrino Paolo Di Lauro ritornò a Napoli per trattare la pace con gli Amato-Pagano, suoi ex fedelissimi che poi decisero di mettersi in proprio. La faida aveva provocato oltre venti morti e una serie infinita di feriti e incendi. Ma la tregua è durata molto poco, il tempo per le due cosche di riorganizzarsi e riprendere le ostilità. Anche perché il 16 settembre del 2005 finisce la ventennale latitanza del padrino che ha saputo trasformare lo spaccio di ogni sorta di stupefacenti in un business industriale. I Di Lauro sono usciti nettamente sconfitti nello scontro con gli scissionisti, e lo dimostrano anche le numerose perdite che hanno subito quest’anno. Il conteggio fa registrare un 5-4 a favore degli Amato-Pagano e la partita ri preannuncia aspra e ricca di colpi di scena. Il 25 gennaio il primo morto della faida targata 2008. A cadere sotto il piombo dei killer scissionisti, proprio all’interno del rione dei Fiori, è Vittorio Iodice, 20enne, “sentinella” dei pusher del clan Di Lauro, che ha pagato con la vita il suo rifiuto a passare con gli avversari. Il 31 gennaio tocca allo zio di Iodice, il 39enne Ciro Reparato, anch’egli vicino ai Di Lauro. Qualcuno ha ipotizzato che l’uomo stesse organizzando la vendetta per l’omicidio del nipote. Il 9 febbraio in piazza Luigi Di Nocera viene massacrato il 33enne Carmine Fusco, personaggio gravitante nell’orbita del clan Di Lauro, ma la mazzata più pesante arriva il 13 marzo con l’agguato ad Antonio Orefice, 57enne, consuocero del defunto padrino Ugo De Lucia, freddato nel rione Berlingieri. Poi i Di Lauro passano al contrattacco e il 22 marzo muore in ospedale Giuseppe Grassi, ex Di Lauro passato con gli scissionisti, ferito in un agguato il 3 marzo. È lo stesso giovane sicario che durante la faida era guardaspalle di Nunzio Di Lauro e una sera, credendo che si trattasse di killer scissionisti, sparò contro quattro marescialli dei carabinieri in borghese che stavano tornando in caserrma. Il 15 aprile viene massacrato Salvatore Cipolletta, ”pezzo da novanta” degli Amato-Pagano che controlla una ”piazza” a Mugnano. Ma c’è anche l’ipotesi che siano stati gli stessi suoi amici ad eliminarlo per uno sgarro. Il 6 maggio e l’11 giugno due clamorosi colpi del gruppo di fuoco dei Di Lauro con gli omicidi di Pasquale Salomone, ex affiliato al clan Licciardi passato con gli Amato-Pagano, e di Mariano La Peruta, ex ”dilauriano” passato con gli scissionisti. Mercoledì pomeriggio un altro colpo assestato dagli Amato-Pagano che sono quasi arrivati a conquistare il rione dei Fiori.

Sono scappati gli amici di Paolo Di Lauro.

Con le ”piazze” di droga controllate quasi tutte dagli scissionisti e con la paura di finire ammazzati, la maggior parte dei trafficanti dei Di Lauro ha cercato nuove strade per continuare l’attività. Esodi massicci verso altre regioni del paese ma anche all’estero. E lo scorso 17 luglio
un’inchiesta condotta dalla Dda di Reggio Calabria ha scoperchiato un vasto traffico di stupefacenti che dai narcobazar dei Di Lauro arrivava nei depositi del clan Alvaro di Cosoleto, grosso centro reggino. Le indagini erano partite lo scorso anno da una intercettazione telefonica
a carico del boss Patrizio De Vitale, fedelissimo dei Di Lauro ammazzato l’anno scorso durante la faida. Nella telefonata il napoletano parlava con alcuni trafficanti di droga all’estero. Uno spunto che si è rivelato decisivo per arrivare all’emissione di 7 ordinanze di custodia cautelare, eseguite dai carabinieri nei confronti di altrettanti esponenti del clan Alvaro. Ma nel mirino, ma finora solo
a livello di “sospetti”, sono finiti anche alcuni pregiudicati napoletani di Secondigliano. Le indagini, iniziate dai carabinieri del nucleo investigativo di Napoli nel 2005 su un più ampio contesto riguardante la faida di Secondigliano, erano finalizzate ad individuare i canali di approvvigionamento dello stupefacente utilizzati dal clan Di Lauro per importare cospicui quantitativi da distribuire sul territorio nazionale. Un primo sviluppo consentì di individuare pregiudicati partenopei collegati ad un gruppo criminale calabrese, il quale poi si rese autonomo dai pregiudicati di casa nostra impegnati soprattutto nella terribile faida con gli “scissionisti”.

Maisto nel clan Di Lauro aveva preso il posto di Giuseppe Pica

Aveva preso il posto del boss Giuseppe Pica, ammazzato il 14 marzo del 2007 assieme al guardaspalle Francesco Cardillo, nella gestione della ”piazza” di droga del rione dei Fiori, il famigerato ”terzo mondo”, ultimo baluardo del clan Di Lauro. Un posto importante ma anche pericoloso per Ciro Maisto, visto che gli scissionisti stanno tentando da tempo di conquistare anche l’ultima roccaforte di ”Ciruzzo ’o milionario" e figli. Un solo killer ha sparato un intero caricatore contro il capopiazza 28enne del clan Di Lauro massacrato mercoledì pomeriggio all’interno del famigerato rione di Secondigliano. È stato usato un revolver calibro 38 e sul selciato non sono stati trovati bossoli. Insomma, una vera e propria esecuzione portata a termine da distanza molto ravvicinata, che ha consentito all’assassino di colpire quattro volte il bersaglio alla testa e una volta al torace. Che Maisto si sentisse nel mirino da quando era stato scarcerato nel 2005 e da quando gli era stata affidata la ”piazza” del ”rione dei Fiori” si è avuta conferma anche dalle parole del fratello che si chiedeva perché fosse sceso in strada. Inusuale anche la scena del crimine, con pochissime persone in strada e soprattutto senza le solite scene di disperazione dei parenti. Assieme al fratello, infatti, in via I Misteri di Parigi c’era solo una zia, mentre la moglie del 28enne è rimasta a casa con i tre figli piccoli. Maisto non aveva documenti addosso e dall’abbigliamento si capiva che era uscito di casa di fretta, dopo una telefonata fatta da qualcuno di cui si fidava che ha organizzato la trappola mortale. È proprio su questo punto che i carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Napoli, con il colonnello Iorio e il capitano D’Aloia, stanno indagando. Diverse persone, tra cui la moglie di Maisto, sono state sentite per ricostruire gli ultimi minuti di vita del boss ammazzato. La pista più seguita è quella di una vendetta del clan Amato-Pagano per alcuni fatti di cui Maisto si era reso protagonista nel corso della guerra che dal 2003 al 2005 ha insanguinato le strade di Scampia e di Secondigliano e che non è mai finita, nonostante i vari accordi. Intorno alle 17, qualcuno di cui si fidava gli ha dato un appuntamento che si è rivelato essere una trappola mortale. Appena arrivato in strada, in via I Misteri di Parigi, il 28enne è stato raggiunto da una vera e propria pioggia di fuoco. Quattro colpi alla testa e uno al torace lo hanno freddato sul colpo mentre la gente che era in strada scappava via terrorizzata. Il boss Giuseppe Pica, che aveva ereditato la ”piazza” del rione dei Fiori direttamente da Cosimo Di Lauro dopo la sua cattura il 21 gennaio del 2005. Ma era diventato un personaggio troppo ingombrante e così fu decisa la sua eliminazione, con qualche colpa anche all’interno dello stesso clan Di Lauro. E anche in quel caso furono gli stessi amici a venderselo al gruppo avversario. Il 14 marzo del 2007 scattò il doppio agguato che costò la vita al capopiazza e al suo guardaspalle, il 36enne Francesco Cardillo. Pica, che era imparentato anche con i Prestieri, era in aperto contrasto con Ugo De Lucia e così venne lasciato solo, anche dopo che aveva cercato dei contatti con gli scissionisti. Il raid di morte scattò all’interno del ”terzo mondo” qualche minuto dopo le 13,30. Il commando di killer, in quattro in sella a due moto, esplose almeno sette colpi di grosso calibro contro il capopiazza appena sceso dall’auto del suo guardaspalle. Francesco Cardillo, sebbene fosse armato non potè fare molto per salvare il suo boss. Rispose al fuoco con il revolver che aveva con sé ma riuscì solo a guadagnare la fuga per circa 700 metri. E mentre un primo gruppo di killer finiva Pica (colpito già da cinque pallottole calibro 38 special al torace e alle spalle) con il classico colpo alla testa, esploso con una pistola semiautomatica calibro 9, l’altro
gruppo inseguì Cardillo fino alla zona conosciuta come “’a vinella”. Qui il 37enne abbandonò l’auto ed imboccò vico Lungo Ponte cercando di arrivare a casa. Ma i killer gli arrivarono alle spalle e lo
massacrarono. Una decina i colpi esplosi che non lasciarono scampo all’uomo, il quale non ebbe modo di rispondere al fuoco.

venerdì 8 agosto 2008

Torna la faida a Secondigliano? Ucciso Ciro Maisto:era il ras dei Di Lauro.

Era stato scarcerato di recente e subito i reggenti del clan Di Lauro, che controlla ancora il rione del ”terzo mondo” a Secondigliano, lo avevano investito della carica di capopiazza. Ma Ciro Maisto, 28enne, pluripregiudicato, residente ufficialmente in via Giardino dei Ciliegi, sapeva da tempo di essere finito nel mirino degli scissionisti del gruppo Amato-Pagano. Per questo motivo il nuovo boss non si vedeva spesso in giro. Ma ieri pomeriggio, intorno alle 17, qualcuno di cui si fidava gli ha dato un appuntamento che si è rivelato essere una trappola mortale. Appena arrivato in strada, in via I Misteri di Parigi, il 28enne è stato raggiunto da una vera e propria pioggia di fuoco. Almeno quattro colpi alla testa e uno al torace lo hanno freddato sul colpo mentre la gente che era in strada scappava via terrorizzata. È la faida che ritorna. Ma l’omicidio di Maisto era una ”morte annunciata”, visto che alcuni ras degli Amato-Pagano avevano giurata di fargliela pagare già tre anni fa, quando era stato scarcerato la prima volta dopo l’arresto e quando si era rifugiato in casa non uscendo mai. Quando i poliziotti del commissariato di Secondigliano lo andarono ad arrestare perché era ricercato, il boss dei Di Lauro tirò un sospiro di sollievo. Per paura di essere ammazzato si era praticamente murato vivo in casa assieme alla moglie e ai due figli piccoli. E c’è un mistero sull’omicidio di ieri pomeriggio: è stato tenuto segreto per diverse ore, fino a tarda sera dai carabinieri. Probabilmente perché non avevano capito bene la matrice del delitto. Eppure Ciro Maisto era un personaggio di grosso calibro del panorama criminale di Secondigliano e Scampia, anche se, ad onor del vero, non ha mai riportato condanne per associazione mafiosa. Per tutta la notte sono stati effettuati controlli e posti di blocco sia a Secondigliano che a Scampia, questo per scongiurare una eventuale risposta da parte degli amici di Maisto ma anche per tentare di stanare i killer, che hanno agito in due in sella ad uno scooter supportati sicuramente da uno ”specchiettista”. Gli investigatori stanno anche controllando i tabulati telefonici del 28enne ammazzato e hanno sentito a lungo i familiari, per capire chi gli abbia dato l’appuntamento che si è rivelato fatale. Ciro Maisto è soltanto omonimo degli scissionisti Stefano e Mario Maisto, assassinati insieme con Mario Mauriello il 9 novembre del 2004 e fatti trovare nella discarica del campo rom di Scampia dopo essere stati chiusi in sacchi di cellophane.

mercoledì 6 agosto 2008

Mazzarella-Misso-Sarno: questo potrebbe diventare il clan più forte della provincia Napoli

Una delle prime verità che l’allora neo-pentito Salvatore Giuliano confessò ai magistrati antimafia di Napoli, durante i lunghi colloqui in carcere, fu l’esistenza di un cartello di camorra formato dalle famiglie Misso-Mazzarella-Sarno, contrapposto all’Alleanza di Secondigliano. Quello spunto investigativo fu, poi, verificato nel corso di successive e più articolate indagini, che si svilupparono in particolare durante la furibonda faida della Sanità, quando una cimice registrò i dettagli del patto che univa i gruppi del centro storico con quelli di San Giovanni a Teduccio e Ponticelli. Finora, dunque, si è saputo che i Mazzarella e i Misso hanno agito, in coabitazione, nella zona di Forcella e del rione Sanità, per la gestione del racket delle estorsioni e della vendita di
droga, non sempre però con una perfetta coincidenza degli intenti e delle strategie. Da alcune settimane, invece, è convinzione degli inquirenti che una nuova rete di collaborazione si sia allargata ad altre zone della città, tradizionalmente controllate dalla sola cosca mafiosa dei Mazzarella, a cui si sarebbero affiancati i Sarno. Soprattutto nella zona delle Case nuove, dove l’indebolimento dei vecchi padrini ha reso più difficile il controllo dei business illegali, anche alla luce della contemporanea azione sul territorio di una nutrita avanguardia del clan di Eduardo Contini, loro storico nemico. Secondo alcune recenti informative antimafia, infatti, sarebbe stato
raggiunto un accordo tra le due organizzazioni camorristiche per il supporto logistico commerciale al traffico di stupefacenti nella zona del Mercato, dove l’incessante attività di polizia giudiziaria ha ormai quasi decimato la presenza dei Mazzarella, che comunque restano il gruppo di riferimento della zona. Da qui la decisione di affidare alcune fasi dell’attività di approvvigionamento e vendita della droga a esponenti della famiglia Sarno, meglio organizzati e con più uomini a disposizione. Si tratterebbe di un’associazione temporanea di impresa camorristica, che prevede la sostituzione concordata dei capizona e dei colonnelli dei Mazzarella finiti in carcere (o sottoterra) con altrettanti camorristi di Ponticelli, ai quali delegare alcuni compiti specifici. Sembrerebbe, inoltre, che per rendere più agevole il trasferimento dal quartiere della periferia est al centro della città siano stati addirittura sgomberati alcuni appartamenti, nelle disponibilità dei Mazzarella, ora occupati dai nuovi inquilini. Se lo scenario dovesse confermarsi tale anche nei prossimi mesi, e se cioè l’alleanza si consolidasse nel tempo e finisse per rappresentare il tassello di una più ampia riorganizzazione criminale in città, allora si realizzerebbe la previsione di quel magistrato che, parlando a proposito del clan Sarno, lo definì il gruppo camorristico più forte della provincia di Napoli.

L' accordo tra Giuseppe Misso ed Eduardo Contini raccontato dal pentito Giuseppe Misso Junior

Il patto tra i boss Giuseppe Misso “o’ nasone” ed Eduardo Contini “o’ romano”, venne stipulato e fu il risultato di due incontri segreti, tenutisi in rapida successione. A distanza di anni a svelarlo è il nipote omonimo del ras del rione Sanità, collaboratore di giustizia come lo zio, che ha parlato anche del contenuto principale dell’accordo: la «non belligeranza tra il clan Misso che si faceva garante per i Mazzarella, storici nemici dei Contini e il clan Contini che si faceva garante per i Licciardi, storici nemici dei Misso». Ma, ha aggiunto “Peppe o’ chiatto”, «mio zio era comunque pronto a rompere questo patto se avesse avuto la possibilità di ammazzare Vincenzo Licciardi, obiettivo per il quale sarebbe disposto a perpretare stragi». Giuseppe Misso junior è stato molto chiaro in questo importante passaggio del suo racconto (fermo restando l’assoluta estraneità delle persone tirate in ballo nei fatti narrati fino a prova contraria). «Edoardo Contini e mio zio Giuseppe Missi giunsero ad un accordo di pace, siglato dopo l’omicidio Prota che avvenne nel 2001. Questo omicidio avvenne ai danni di esponenti del clan Licciardi, acerrimo nemico di mio zio Giuseppe Missi nei confronti del quale mio zio ha sempre nutrito propositi di vendetta per avere i Licciardi ed in particolare Vincenzo Licciardi ucciso la moglie Assunta Sarno. Mentre non aveva problemi con Edoardo Contini ed ha sempre pensato di utilizzare i buoni rapporti che si stavano instaurando con quest’ultimo contro i Licciardi. Invero dopo l’omicidio Prota fu proprio Edoardo Contini che fece giungere della ambasciate alla Sanità proponendo un incontro tra lui e Giuseppe Missi». Il pentito ha anche fornito dettagli precisi sulle riunioni per sancire il patto di non belligeranza. “Mio zio non si recò personalmente all’incontro che tuttavia favorì e vi furono ben due incontri; ad un primo andarono Ciro De Marino e Salvatore Bavarese, giacché Michelangelo Mazza che era stato designato da mio zio si tirò indietro; costoro si recarono ad un primo appuntamento nella zona di Volla, presso un capannone di costruzione o rimessaggio di barche ove ad attenderli vi erano Peppe ’o guaglione (Peppe Ammendola) ovvero Pauluccio o infermiere (Di Mauro Paolo), non ricordo bene chi dei due vi fosse perché mi è stato raccontato da Ciro De Marino. Da lì furono portati all’incontro con Edoardo Contini che all’epoca era già latitante. Edoardo Contini, per come mi è stato riferito dal De Marino, ha avuto parole di apprezzamento proprio per Ciro De Marino ed in quella occasione ha chiesto, come di dimostrazione di apertura nei suoi confronti, che Giuseppe Missi intercedesse presso i Sarno di Ponticelli affinché li potessero rimanere le donne del clan De Luca Bossa, che era alleato dei Contini. Da parte di mio zio la risposta fu positiva e fu comunicata in occasione di un secondo incontro che si tenne ad Arzano e al quale andò Vincenzo Troncone.

venerdì 1 agosto 2008

E' faida a San Giovanni a Teduccio?

Sette pistolettate contro la casa del ras, secondo messaggio intimidatorio dello stesso tipo in un mese. Ma l’altra volta, a fine giugno, la polizia trovò pochi bossoli di proiettili; l’altro ieri sera invece, ne ha raccolti e sequestrati ben dieci di calibro 9x21. Nel frattempo le indagini erano già decollate e la pista resta anche ora la stessa: gli investigatori puntano con decisione al clan Mazzarella. Salvatore Reale infatti, bersaglio dell’ultima sparatoria, avrebbe riavvicinato il suo gruppo ai Rinaldi, storici avversari dei malavitosi con base a San Giovanni a Teduccio. Poco tempo fa si verificarono, quasi contemporaneamente anche se con modalità diverse, diverse scarcerazioni eccellenti che fecero drizzare ancora di più le orecchie agli investigatori che si occupano della malavita di San Giovanni a Teduccio. Prima era tornato libero, senza alcuna misura di sicurezza a carico, proprio il ras dei Reale, dell’omonimo clan originario del rione Pazzigno; poi erano passati dalla cella agli arresti domiciliari due fratelli finiti in manette a settembre 2007 e sospettati di legami con i Mazzarella (nonché congiunti di un altro ferito il 4 luglio a colpi di pistola nel corso di una presunta rapina su cui ancora non c’è completa chiarezza). Cominciamo da Salvatore Reale, tornato a casa in pianta stabile dopo dieci anni di detenzione. È uno stretto congiunto dei boss dell’omonimo gruppo di Pazzigno: Patrizio detto “Patriziotto” e Carmine, soprannominato “o’ cinese”. Il clan, imparentato con i Rinaldi, secondo gli investigatori di carabinieri e polizia negli ultimi mesi si sarebbe riavvicinato alla cosca del rione Villa, quest’ultima storicamente contrapposta ai Mazzarella di San Giovanni a Teduccio con omicidi eccellenti da un lato e dall’altro fin dal lontanissimo 1980. Diversi anni fa i Reale ebbero, loro malgrado, il periodo di massima notorietà. Nell’agosto del ‘97, infatti, frotte di poliziotti con carri blindati ed in assetto anti-sommossa riuscirono a liberare il quartiere di Pazzigno dalla condizionante presenza dei “guaglioni” del clan Reale (poi tornati gradualmente alle abitazioni lasciate). Tra gli sfratti coatti, eseguiti dagli agenti della questura di via Medina, finì anche l’appartamento occupato dalla giovane moglie di uno dei ras e la stessa sorte toccò anche ad alcuni parenti dei fratelli del capoclan Patrizio, Salvatore, Mario e Carmine, quest’ultimo meglio conosciuto con l’appellativo di “ò cinese” ed elemento altrettanto carismatico del congiunto “Patriziotto”. Ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti e a Pazzigno il potere dei Reale è ritornato gradualmente, anche se in maniera meno asfissiante. E’ anche un ricordo ciò che accadde nell’ormai lontano 20 gennaio del ‘95, quando la gente del quartiere e i “guaglioni” si ribellarono alle perquisizioni degli agenti, malmenando alcuni poliziotti che avevano bloccato uno spacciatore. Sugli spari contro l’abitazione di Salvatore Reale, in via Pazzigno, stanno indagando i poliziotti della squadra giudiziaria del commissariato San Giovanni a Teduccio. L’intimidazione, secondo informazioni confidenziali raccolte, è stata compiuta da due pistoleri in sella a una motocicletta. I proiettili non hanno provocato danni né feriti, centrando soltanto i muri della palazzina.